“QUA C’E’ SOLO PARTANZA” – “Un Mondo a parte”

Il nuovo film di R. Milani è un formidabile spunto di riflessione sul ruolo e le difficoltà delle aree rurali periferiche del Paese. Lo sforzo di superare una narrazione ormai trita e indicare tutte le contraddizioni del caso fa onore al lavoro cinematografico, che non trascura elementi che "gli addetti al settore" dello sviluppo locale non possono non riconoscere.

Dal regista Riccardo Milani ancora riflessioni non banalizzanti su tematiche di solito riservate ad un pubblico di addetti ai lavori: futuro dei territori, spopolamento delle zone rurali, giovani e dinamiche socioeconomiche dominanti…fino a sottolineare, forse inconsapevolmente ma in modo semplice e comprensibile, il ruolo fondamentale che l’approccio di sviluppo dal basso (Sviluppo Locale guidato dalle Comunità – CLLD) e soggetti come i GAL (eh?!) possono rivestire per le zone rurali.

Un maestro di scuola (A. Albanese) motivato e dalla spiccata sensibilità socio politica lascia gli alunni della periferia romana per raggiungere una piccola comunità dell’Appennino abruzzese il cui futuro è seriamente minacciato dall’incombente chiusura dell’unico istituto di istruzione primaria presente. Questa prospettiva inquietante spinge il maestro, con il supporto di una collega (V. Raffaele) e dell’intero staff scolastico a cercare una soluzione “fuori dalle righe” ma quanto pare efficace.

Lo sviluppo del film risulta lineare e la costante nota ironica in sottofondo ne rende gradevole e per nulla pesante la visione, nonostante il ventaglio ampio ed eterogeneo dei temi di “attualità” tra gli appassionati ed esperti di sviluppo rurale.

La pellicola, infatti, sfiora – ed in alcuni casi approfondisce – alcune delle dinamiche e delle tematiche cruciali descritte nei report e negli studi analitici che indagano le zone interne del Paese e le aree rurali.

Ok, lo spopolamento delle aree rurali, con particolare drammaticità nelle aree interne del Paese è il filo rosso su cui si sviluppa il plot narrativo ma – ed in questo Milani ed Astori (co-sceneggiatore) dimostrano di avere una sensibilità per la faccenda “sviluppismo” ben più accentuata di altri cineasti contemporanei – come in “Come un gatto in tangenziale”, tratteggiano con competenza quasi “tecnica” alcuni degli elementi chiave dei processi di sviluppo rurale: dal disfattismo come reazione culturale al senso di abbandono, alla perdita graduale di servizi e infrastrutture, passando per la volontà appassionata di qualche visionario e i “dispetti” campanilistici che animano certe logiche politiche di piccolo cabotaggio.

Ma la profondità dell’analisi, sempre accompagnata da una salubre leggerezza, si manifesta, in modo particolare, in due sequenze “fondamentali” del film:

#1 VI MANDIAMO PRATICAMENTE IN GUERRA

La prima è quella in cui Michele Cortese (Antonio Albanese) si confronta con una coppia di genitori che vivono come una tragedia familiare la scelta del loro figlio maggiore, appena maggiorenne, di avviare una azienda agricola per vivere nel luogo natìo. Nello scambio, il maestro celebra la scelta del ragazzo come degna del massimo supporto e, preso dall’entusiasmo cita e celebra il concetto di “RESTANZA” (introdotto dall’antropologo Vito Teti), neologismo che sintetizza “la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo.” (Treccani)

“MO S’E’ MESSO IN TESTA CHE VUOLE FARE L’AZIENDA AGRICOLA…MANNAGGIA LA MAIELLA” esclama la madre di Duilio (nel frame del fil riportato qui sopra), seriamente preoccupata per il futuro del figlio, poco prima che il padre espliciti in modo duro e diretto i termini della contraddizione strutturale: “io ti ho capito a te” dice al maestro “tu sei quello che gli piace il foliage viene qua 3 giorni e pi se ne va”. Un’ affermazione dura, tagliente, a cui è difficile controbattere e alla quale non ci si sottrae, se onesti intellettualmente: la narrazione delle nostre zone rurali incide in modo significativo su quello che le comunità percepiscono come potenzialità per la propria sopravvivenza ed il proprio sviluppo ma, purtroppo, spesso i propositi di valorizzazione confliggono con la scarsa attenzione alla cura, all’emancipazione e al “riscatto” del potenziale umano, con particolare riferimento ai giovani, la materia di cui è composto il futuro.

“a volte noi, che non viviamo qui, vi mettiamo in testa delle stronzate, tipo… che c’è un futuro nella terra, nel recupero dei borghi…e non ci rendiamo conto che vi mandiamo praticamente in guerra, con il rischio che non torniate più”.

Frase rivolta a Duilio dal maestro (Albanese)

la “coltivazione” del capitale umano attraverso l’attribuzione di dignità e valore a ciò che la ruralità stessa è, non solo a ciò che mostra di sè.

E la corazza logica del Maestro mostra segni di cedimento. Sembra non esserci soluzione al paradosso: per consentire a qualcuno (che ha molto) di apprezzare, qualcun altro (che ha meno) deve sacrificare… e, quasi pentito di averci creduto, si rivolge a Duilio (Duilio Antonucci) in tono amaramente sincero e disincantato, con lo scopo di far desistere il ragazzo dal progetto di vita intrapreso: “a volte noi, che non viviamo qui, vi mettiamo in testa delle stronzate, tipo… che c’è un futuro nella terra, nel recupero dei borghi…e non ci rendiamo conto che vi mandiamo praticamente in guerra, con il rischio che non torniate più”. Ma d’un tratto la vicepreside Agnese (V. Raffaele) lo incalza con una considerazione che, ancora una volta, coglie il significato profondo della questione generazionale nelle zone rurali: “gli dovremmo insegnà noi a coltivà la terra…allora sì che avrebbe veramente senso tené aperta la scuola”.

Continuare a reiterare modelli culturali e di insegnamento etero-imposti e che affondano la propria ragion d’essere in una prototipazione di matrice urbana non ha senso: se non si vuole ridurre la ruralità a feticcio edonistico bisogna partire dal bene più prezioso: la “coltivazione” del capitale umano attraverso l’attribuzione di dignità e valore a ciò che la ruralità stessa è, non solo a ciò che mostra di sè. Giovani imprenditori agricoli senza servizi, senza consapevolezza, senza comunità né supporto, non” fanno ruralità”.

E i fatti dimostrano che le competenze e le dinamiche vitali dei giovani possono “piovere” sul selciato arido delle comunità rurali apportando un valore aggiunto determinante, da un lato, e una possibilità occupazionale – non solo in agricoltura – dall’altro.

Bisogna centrare sulla dignità territoriale, culturale, economica e politica delle realtà rurali un sistema di formazione, accompagnamento e relazione con l’esterno, fare lo sforzo di preparare il letto di semina per nuove prospettive.

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